Dati Cannabis
Nota fin dai tempi antichi, studiata e utilizzata per decenni per i numerosi effetti terapeutici, la cannabis è vietata da inizio anni ’70.
Tra le sostanze psicoattive, è però quella più diffusa – anche perché, quando il consumo è moderato, i rischi di danni permanenti sono molto bassi. Al contrario, le potenzialità terapeutiche che potrebbero derivare da una sua legalizzazione sono molto interessanti.
Origine geografica
La cannabis è una sostanza di origine naturale, derivata dalla coltivazione della pianta Cannabis sativa, molto diffusa e capace di crescere sia nelle zone tropicali che in quelle temperate.
Tra le sostanze illecite è quella più diffusa al mondo sia in termini di quantità che di luoghi di produzione.
La principale produzione di cannabis viene dall’Africa occidentale, dal Marocco e dal SudAfrica che producono circa il 25% del totale, secondo i dati dell’UNODC, l’ufficio delle Nazioni Unite dedicato alle droghe. Il continente americano contribuisce con circa il 23%.
C’è anche una consistente produzione domestica che viene stimata essere in aumento sia in Europa che nel Nord America, grazie anche alla diffusione di tecnologie che ne facilitano la fioritura anche indoors. In quest’ultimo continente avvengono il 70% dei sequestri soprattutto in Messico e negli Stati Uniti.
La cannabis è venduta sul mercato sia sotto forma di erba che di resina, un po’ meno popolare della prima. Oltre il 95% dei sequestri di resina è confinato a Europa, NordAfrica e Medio Oriente.
In anni recenti, l’Afghanistan è emerso come paese produttore di resina e ha superato perfino il Marocco che deteneva il primato. La cannabis infatti sta diventando una coltura altrettanto e forse più remunerativa dell’oppio.
Storia
L’uso della cannabis sia come fonte di fibra che come droga è noto dai tempi antichi ed era diffuso in Cina, India e Grecia. Le tinture di cannabis, sotto forma di estratti a base di etanolo, erano molto comuni fino ai primi anni del ‘900.
Poi la marijuana è stata associata a una serie di disordini mentali e considerata come la droga che apriva all’uso di altre droghe.
L’isolamento e la sintesi in laboratorio del THC e di altri cannabinoidi è stato fatto per la prima volta nel 1964 da Rapahel Mechoulam, della Hebrew University e da Habib Edery dell’Università di Tel Aviv in Israele.
Con la Convention on Psychotropic Substances delle Nazioni Unite del 1971 la marijuana è stata classificata come sostanza pericolosa con alto potenziale di abuso. Ne è stata così resa illecita la distribuzione e la produzione. Anche la ricerca sugli effetti medici si è quindi sostanzialmente fermata.
Negli ultimi anni c’è un rinnovato interesse per gli effetti terapeutici associati all’uso di cannabinoidi e di marijuana nel trattamento di diverse malattie e condizioni di dolore cronico o acuto.
Molti stati ne stanno liberalizzando l’uso sia per motivi terapeutici che ricreativi.
Diffusione e prevalenza
La cannabis è la sostanza illecita più utilizzata nel mondo. Nella sola Europa ne fanno uso abituale circa 20 milioni di persone (tra i 15 e i 64 anni), di cui 3 milioni con cadenza quotidiana, secondo i dati dello European Monitoring Centre for Drugs and Drug Addiction (EMCDDA).
Due terzi degli utilizzatori forti, quelli con cadenza quotidiana, hanno tra i 15 e i 34 anni. Tre su quattro di questi sono maschi.
Oltre 70 milioni di persone l’hanno provata almeno una volta nella vita, anche se le percentuali di utilizzatori variano molto da paese a paese (dall’1,6% al 32,5%).
Più frequente è l’utilizzo da parte dei giovani (tra i 15 e i 34 anni) che arrivano a percentuali del 45% in qualche paese.
La stima dell’EMCDDA è che circa l’11,7% dei giovani europei, quindi poco più di 15 milioni di persone, abbiano provato la cannabis nel corso dell’ultimo anno.
Lo studio ESPAD, una ricerca europea che analizza il rapporto con le sostanze illecite e alcol e tabacco tra i 15-16enni, stima percentuali di utilizzatori nei vari paesi che variano dal 5% in Norvegia al 42% nella Repubblica Ceca.
Modo d’uso
Dalla cannabis si produce erba, ottenuta facendo seccare i fiori e le foglie, e resina.
La resina è in forma solida compressa e deriva proprio dall’utilizzo delle parti resinose della pianta mentre l’hashish, oleoso, è un estratto ottenuto trattando la pianta con dei solventi.
La cannabis si fuma, spesso associata e mescolata con il tabacco sotto forma di sigaretta o con appositi strumenti come il bong.
Data la bassa solubilità del THC l’ingestione di cannabis porta a un assorbimento molto scarso della sostanza.
Lo spinello tipico contiene circa 200 mg di erba o di resina.
Meccanismo d’azione
Il principio attivo della cannabis è il THC (tetra-idro-cannabinolo), che si trova solo in piccole quantità nella pianta, in alcune foglie e nei germogli in fiore soprattutto delle piante femmine, mentre le piante maschio ne sono quasi del tutto prive.
Il THC ha una bassa solubilità in acqua ma si scioglie in diversi solventi organici. E’ uno stimolante che agisce sui recettori cannabinoidi che si trovano sulla superficie dei neuroni cerebrali.
Ha effetti psicoattivi mentre altri componenti chimici che si trovano nella pianta, definiti nel loro insieme cannabinoidi, non hanno questo tipo di effetti.
I recettori cannabinoidi fanno parte del sistema endocannabinoide, un network di comunicazione cerebrale importante nello sviluppo cerebrale e cognitivo. In natura, i recettori sono stimolati da un neurotrasmettitore naturale, l’anandamide.
Il THC imita il meccanismo di azione dell’anandamide legandosi ai recettori e attivando i neuroni, provocando il rilascio di molti altri neurotrasmettitori come la noradrenalina, il GABA, la serotonina e la dopamina.
I recettori del THC sono diffusi su tutto il cervello ma prevalenti su ippocampo, cerebellum, fronteccia prefrontale e amygdala, aree coinvolte nella concentrazione, memoria, dolore, piacere, coordinamento motorio.
Effetti
La farmacologia della cannabis è molto complessa perché il principio attivo, il THC, è mescolato ad altre sostanze, i cannabinoidi, che non hanno proprietà psicoattive.
A piccole dosi la cannabis induce euforia, sollievo, rilassatezza, calma e sonnolenza. Gli effetti sono per certi versi simili a quelli dell’assunzione di alcol.
Quando la cannabis viene fumata il THC può essere ritrovato nelle urine nel giro di pochi secondi e ha una emivita di circa 2 ore. Alcuni metaboliti della cannabis però rimangono in circolazione nel sangue fino a 2 settimane.
Non ci sono evidenze scientifiche di danni derivanti dall’assunzione moderata di cannabis, mentre alcune ricerche hanno evidenziato una associazione tra un uso intenso della cannabis e la riduzione delle capacità di apprendimento.
Ci sono evidenze contrastanti sull’associazione tra consumo di cannabis e schizofrenia o altre condizioni di salute mentale, ma una chiara relazione di causa-effetto non è allo stato attuale mai stata dimostrata. La mortalità associata alla cannabis è di fatto inesistente.
I rischi principali derivanti dall’assunzione di cannabis sono quelli relativi al consumo della sostanza associato ad alcol e tabacco, i cui effetti sono invece ben noti e descritti in letteratura scientifica.
Una serie di ricerche ha evidenziato effetti protettivi della cannabis nei confronti di alcune patologie croniche, come la sclerosi multipla, o degli effetti indesiderati dei farmaci chemioterapici. (vedi Studi scientifici)
Della potenzialità di utilizzare la marijuana a fini terapeutici si parla da sempre.
Le proprietà farmacologiche della cannabis erano ben note anche in passato e nel corso del ‘900 sono stati fatti molti studi per verificarne efficacia ed effetti su diverse condizioni di salute.
La messa al bando come sostanza illecita ha rallentato se non proprio fermato molte ricerche.
E’ anche vero che la marijuana viene spesso presentata come panacea per un ampio range di problematiche, senza che dati scientifici ed evidenze siano a sostegno di tutte queste ipotesi.
Un po’ di chiarezza viene da un ampio studio di revisione, una review, pubblicata a giugno 2015 sulla rivista scientifica Jama (Journal of the American Medical Association). La review ha analizzato 79 studi clinici diversi fatti, complessivamente, su 6400 persone.
Le conclusioni sono interessanti: la cannabis è associata con significative riduzioni di nausea e vomito derivati dalla chemioterapia, del dolore cronico e della spasticità associata alla sclerosi multipla o alla paraplegia.
L’analisi mette in evidenza anche gli effetti secondari associati all’assunzione di cannabis, come sonnolenza, disorientamento, stanchezza sottolineando il fatto che il trattamento con la cannabis non è di per sé risolutivo e che deve essere sempre considerato quando altre terapie non funzionano.
Altre due review recentemente pubblicate forniscono dati a supporto di un effetto positivo della cannabis sul dolore cronico ma sottolineano l’importanza di sviluppare la ricerca e potenziare i test clinic.
E il punto è proprio questo. Anche se le indicazioni relative agli effetti terapeutici sono interessanti e in qualche caso confermate, tanto che anche in Italia esistono delle possibilità di prescrizione dei cannabinoidi per alleviare i sintomi di alcune patologie come la sclerosi multipla, la Sla e gli effetti associati alla chemioterapia, la ricerca è stata molto limitata proprio per la difficoltà di reperire una quantità sufficiente di sostanza e di organizzare trial clinici estesi.
Tanto per fare un esempio, negli Stati Uniti c’era un solo centro di ricerca autorizzato a coltivare la cannabis per fare ricerca sulla marijuana, l’Università del Mississipi. E il massimo quantitativo che poteva utilizzare era comunque di 21 kg all’anno, utili per circa 50mila spinelli.
Seguendo il nuovo corso inaugurato con la legalizzazione in molti stati americani, adesso la quota è stata alzata a 650 kg e il percorso burocratico per l’approvazione delle ricerche è stato semplificato.
Queste sono condizioni necessarie per poter effettuare test clinici in grande scala, come quelli fatti dalle aziende farmaceutiche quando testano un farmaco. E un dato che deve far riflettere, forse, è che molti farmaci disponibili sul mercato da molti anni per il trattamento del dolore non sono stati testati per usi a lungo termine.
Uno studio recente ha evidenziato che negli stati americani dove è stata legalizzata la marijuana e quindi è aumentato l’uso per il trattamento del dolore ci sono meno overdosi associate a un abuso di altri farmaci, legali ma ad alto rischio, come quelli a base di oppioidi utilizzati per il trattamento del dolore.
In definitiva, è necessario fare più ricerca per consolidare le conoscenze relative alle reali potenzialità terapeutiche della cannabis.
Ma per farla è necessario avere a disposizione la materia prima e la possibilità di eseguire i test con le stesse modalità, criteri e restrizioni applicate agli altri farmaci.
Effetti sul quoziente intellettivo e sul sistema cognitivo
Diversi studi, tra cui uno pubblicato nel 2012 da Madeline Meier della Duke University sui Proceedings of the National Academy of Sciences (PNAS) su un campione di oltre 1000 persone seguite dall’infanzia ai 38 anni, hanno suggerito che l’uso di cannabis in età adolescenziale potesse avere impatti molto negativi sia sullo sviluppo cognitivo dei ragazzi che sul QI.
Tuttavia, la stessa Meier è tornata recentemente sui suoi risultati rivedendo le associazioni e soprattutto le relazioni causa-effetto, prendendo in considerazione anche i fattori socioeconomici e culturali e non solo l’assunzione di cannabis.
A questo si aggiunge un altro studio molto ampio, fatto su oltre 2200 ragazzi nati nei primi anni ‘90 e seguiti fino ai 15 anni, che mette in dubbio questa associazione.
In particolare, la ricerca britannica, coordinata da Claire Mokrysz della University College London e presentata nel 2014 all’annual congress of the European College of Neuropsychopharmacology (ECNP) a Berlino, dimostra che
gli effetti negativi di un uso moderato o frequente ma non eccessivo di cannabis sul quoziente intellettivo e sulle capacità di apprendimento non sono ascrivibili tanto all’uso della cannabis quanto all’assunzione di un range di sostanze come alcol, tabacco e altre sostanze psicoattive.
Lo studio dimostra che i ragazzi che consumano forti quantità di cannabis (assunzione quasi quotidiana) hanno effettivamente moderate difficoltà nell’apprendimento e peggiori risultati scolastici.
Le ricerche recenti in questo campo comunque dimostrano che i fattori di rischio nell’ambito cognitivo sono più di natura socioeconomica che associati a un uso occasionale o moderato di cannabis.
Una serie di review, revisioni di molti studi diversi, pubblicate nel 2014 dimostrano che se è piuttosto logico attendersi perdite di memoria e scarsa capacità di apprendimento a un uso intensivo e a una intossicazione acuta da cannabis, gli effetti reali sullo sviluppo e poi sulle performance cognitive rimangono troppo inconsistenti per stabilire chiare relazioni causali.
Un altro studio recente, pubblicato a fine 2014 su PNAS e condotto da un team dell’Università del Texas e del Center for BrainHealth, ha utilizzato diverse tecnologie di imaging per verificare i cambiamenti strutturali a livello cerebrale indotti da un uso molto intenso di marijuana.
L’analisi, fatta su persone adulte che fanno un uso quotidiano e piuttosto intenso di cannabis, dimostra che questi assuntori sviluppano delle modificazioni della corteccia cerebrale. Aumenta la connettività, e quindi c’è un maggior sviluppo della cosiddetta materia bianca. Al contempo, nel lungo termine, si avviano processi di degradazione della materia grigia.
Cosa questo possa significare in termini di effetti e ricadute, e quale sia il grado di reversibilità del fenomeno in caso la persona smetta di assumere cannabis, rimangono domande aperte.
Ma è la prima volta che un pool di tecniche di imaging viene utilizzato per analizzare cambiamenti a livello morfologico del cervello dei consumatori.
C’è poi la relazione tra utilizzo di cannabis e schizofrenia, una relazione che molti studi hanno evidenziato. Quello che rimane da stabilire, però, è se sia l’uso di cannabis a scatenare la schizofrenia o, al contrario, se tra le persone con una diagnosi di schizofrenia ci sia una maggiore propensione all’uso della cannabis.
Uno studio fatto sulla popolazione inglese tra metà anni ‘90 e il 2005 dimostra che a fronte di un aumento marcato del consumo di cannabis nella popolazione, fino a 4 volte rispetto agli anni ‘70, le diagnosi di schizofrenia rimangono sostanzialmente invariate.
Risultati analoghi provengono da alcuni studi svedesi che dimostrano una associazione ma non riescono a chiarire i rapporti corretti di causalità. Altre ricerche dimostrano che c’è una associazione tra uso di cannabis e sviluppo di una psicosi.
Gli studi recenti però tendono a prendere in considerazione, come fattori di rischio, più la storia personale e familiare che non l’uso di cannabis.
Un altro punto di interesse è la possibilità che la marijuana induca danni al sistema cardio-circolatorio e a quello respiratorio.
Secondo l’International Centre for Science and Drug Policy americano una serie di studi pubblicati tra il 2013 e il 2014 ha sicuramente dimostrato la necessità di approfondire le conoscenze in questo ambito e quindi di fare maggiore ricerca.
Non ci sono evidenze scientifiche sostanziali e solide per poter dire che l’uso della cannabis possa danneggiare il cuore o i polmoni.
E addirittura, uno studio pubblicato nel 2012 sul Journal della American Medical Association (JAMA), che ha seguito oltre 5000 partecipanti per 20 anni, suggerisce che un uso moderato della cannabis è addirittura associato con un aumento e non una diminuzione delle funzioni polmonari.
Quel che è certo, e dimostrato dai molti studi avviati in questi anni, è che, per quanto riguarda i polmoni, il problema è aggravato dal fatto che spesso chi fuma la cannabis fuma anche tabacco e talvolta fa uso anche di altre sostanze .
E dato che gli effetti del tabacco sono molto noti e ben dimostrati è ancora più difficile stabilire se la cannabis da sola possa avere qualche effetto negativo.
L’alcol è legale, la marijuana no.
Queste due sostanze sono dunque regolamentate in modo completamente diverso.
Ma molti studi dimostrano, dati alla mano, che gli effetti sulla salute e i rischi associati al consumo di alcol sono ben più elevati, conosciuti e dimostrati rispetto a quelli associati al consumo di marijuana. A partire dal fatto che di binge drinking, bere compulsivo, si può morire come di overdose. Di marijuana no.
I dati dei CDC (Center for Disease Control) americani dicono che negli Stati Uniti il 17% della popolazione ha un serio problema di alcolismo.
Molti di più sono quelli che bevono, anche occasionalmente, in modo compulsivo, un comportamento che può facilmente degenerare nella dipendenza da alcol.
Tra i giovani di 18-24 anni, i bevitori forti sono quasi il 30%. Più della metà degli adulti americani ha una storia familiare di alcolismo o comunque di assunzione eccessiva di alcol.
L’alcol uccide ogni anno circa 88mila persone. I morti perdono in media 30 anni rispetto alla speranza di vita media americana.
Un morto su dieci, sul lavoro, è attribuibile all’eccesso di alcol tra i 20-64enni.
Sono quasi 10mila i morti in incidenti stradali associabili all’alcol nel solo 2013, negli USA. Quasi un terzo del numero totale di morti su strada. Il 17% dei bambini e ragazzi tra 0 e 14 anni morti in un incidente (200 su 1149) sono attribuibili a un guidatore sotto effetto di alcol, che nella metà dei casi guidava la stessa macchina su cui viaggiavano i bambini.
Alla marijuana da sola non è possibile attribuire sostanzialmente nessuna morte.
Certo, nessuno dovrebbe guidare quando è sotto effetto di qualsiasi sostanza psicoattiva. E la marijuana può certamente aumentare il rischio di essere coinvolti in un incidente, per una ridotta capacità di coordinamento, di controllo e di giudizio in merito a una situazione di rischio.
Diverse droghe, marijuana inclusa, sono infatti coinvolte nel 18% delle morti su strada. Ma quasi sempre queste droghe sono consumate assieme all’alcol. Un ulteriore fattore di rischio, per l’alcol, è il fatto che interagisce con il metabolismo di alcuni farmaci, con effetti ancora più dannosi e rischiosi.
In Italia, secondo i dati dell’Osservatorio nazionale alcol dell’Istituto superiore di sanità, il 40% degli incidenti stradali sono conseguenza dell’ubriachezza. Un italiano su dieci beve in modo problematico e circa 30mila persone muoiono ogni anno per colpa dell’alcol.
A lungo termine, il consumo di alcol è associato a una numerosa lista di condizioni patologiche, tra cui la cirrosi epatica che distrugge il fegato e vari effetti sul sistema cardiocircolatorio.
I dati sugli effetti a lungo termine della marijuana scarseggiano, anche per la difficoltà di fare lunghi e articolati studi epidemiologici su questa sostanza.
Ma studi recenti hanno confermato che non ci sono dati a sostegno dell’ipotesi, che teneva banco fino a qualche anno fa, che la marijuana potesse essere un fattore di rischio per il tumore ai polmoni.
Una difficoltà in questo tipo di studio è data dal fatto che frequentemente il consumatore di cannabis è anche un fumatore, e sugli effetti negativi del tabacco sulla salute dei polmoni ci sono, di fatto, ben pochi dubbi.
A confermare questi elementi, un report pubblicato a febbraio 2015 su Scientific reports di Nature propone un confronto tra la valutazione di rischio associata al consumo di alcol, cannabis e altre sostanze.
Il report arriva alla conclusione che “i rischi della cannabis potrebbero essere stati sovrastimati in passato. Al contrario, i rischi dell’alcol potrebbero essere stati comunemente sottostimati”.
Gli effetti delle due sostanze sono diversi anche sui comportamenti.
Il 40% dei crimini violenti sono associati all’abuso di alcol, secondo il National Council americano su alcolismo e dipendenza da droghe. Tra questi crimini si contano anche il 37% delle violenze sessuali.
Nessuna associazione di questo tipo riguarda gli utilizzatori di marijuana. Gli unici dati che legano la marijuana a fatti illeciti riguardano la sua distribuzione negli stati in cui la distribuzione è proibita e sanzionata.
Uno studio sui college americani, pubblicato nel 2011, ha dimostrato che l’incidenza di violenza fisica e mentale aumentava in modo significativo nei giorni in cui gli studenti bevevano (tipicamente nei week end). P
er contro, un altro studio americano del 2014 pubblicato su una rivista scientifica di psicologia comportamentale ha analizzato la violenza nelle coppie sposate nei primi 9 anni di matrimonio dimostrando che l’uso di marijuana è associato a comportamenti meno violenti.
La marijuana non uccide. Soprattutto se il consumo non è intenso e continuativo.
Due studi, il primo svolto su 45.000 svedesi seguiti per 15 anni e il secondo su 65000 persone negli Stati Uniti, hanno evidenziato che la marijuana non aumenta la mortalità tra gli uomini e le donne sani.
Certo, la ricerca su questa sostanza è ancora limitata e va ampliata.
Ma i dati disponibili indicano che i potenziali effetti positivi sono molti e che, rispetto a sostanze oggi pienamente legali come alcol e tabacco, gli effetti negativi non sono tali da renderla così pericolosa se l’uso che se ne fa è moderato come dovrebbe essere quello di qualsiasi sostanza psicoattiva.
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